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venerdì 28 marzo 2014

Il pavone bianco - la nuova "fatica" poetica di Walter Vettori


In uscita nel mese di giugno per Edizioni Galassia Arte l'ultima "fatica" poetica di Walter Vettori, dal titolo "Il pavone bianco".









IL PAVONE BIANCO
di Walter Vettori

SINOSSI:


Una telefonata scuote il cielo di palta della Milano di Marco, un immobiliarista perso fra il denaro, la lussuria e la cocaina. L'annuncio della morte del nonno paterno è un dolore straziante per Marco, orfano in tenera età di entrambi i genitori ed allevato dal nonno Adriano fra l'immensa bellezza che impreziosiva le vetuste mura del negozio d'antiquariato nel centro di Stresa. E' in questa località del lago Maggiore che Marco ricomincia una nuova vita, come antiquario, facendo dell'esistenza del nonno un prolungamento di sé stesso.
Fra prosa e poesia lo sguardo del protagonista della nostra storia cala impietosamente sul declino della società odierna. Il circondarsi del “bello” sembra essere l'ultima difesa possibile contro la guerra totale all'Arte in atto oramai da diversi anni. In questa sua battaglia fatta di versi e lodi alla bellezza, Marco incontra l'amore di Anna, una cameriera di un locale di Stresa. Il rapporto fra loro, trova nella poesia un alleato comune. Una raccolta di poesie lasciata, in una iniziativa di “BookCrossing”, sopra una panchina e raccolta da Anna che in seguito la donerà a Marco, apre un'altra finestra di riflessione sulla società. Il telescopio in versi della misteriosa raccolta (“Aldiquà del blu”) ci porta ad una visione futuristica intrisa di speranza verso un'umanità che per risorgere dovrà ritornare su antichi passi, disconoscendo un'esistenza meramente materiale e riabbracciando l'unità funzionale dell'essere umano costituita da anima e corpo.
Il poema finisce con il nostro protagonista che, lasciando alle spalle il lago e lo sguardo verso l'avvenire di “Aldiquà del blu”, si rituffa nell'unico vero presente consolatorio della sua esistenza: la luce di un'opera d'arte.

domenica 19 gennaio 2014

I POETI CONTEMPORANEI








I poeti contemporanei 


La modernità comporta velocità ed estensione: si arriva in un
baleno a tante persone, nei luoghi più diversi e lontani. Può
rifiutarsi a questo la poesia, tenuta così a lungo appartata?
Ma la poesia ha per sua natura la grazia di darsi ad ognuno,
di condurlo nell’altrove della parola destinata a durare e del
pensiero che rende chiari e colmi i giorni della vita.
Così, in questi libri in cammino, nei loro versi, nelle loro
frasi, troveremo il molto che ci portavamo dentro inespresso,
la vicinanza di chi rivelandosi ci rivela a noi stessi. E daremo
voce a sentimenti che fremevano dietro mura di silenzio,
traverseremo mondi che ci appartengono e che mai prima
avevamo nemmeno intravisto. Ognuno di questi libri nasce
come un bene comune e un avvio.

giovedì 6 maggio 2010

LA PIETRA DI SAN MARTINO



Il titolo “La pietra di San Martino”, che è anche il titolo di una lirica del libro divisa in tre parti, nasce da un racconto fattomi riguardante uno scherzo, in voga nei primi anni cinquanta del novecento, che constatava nel prendere una pietra della giusta grandezza levigarla, dipingerla curandone i particolari fino a farla somigliare nel risultato finale ad un vero e proprio pallone da calcio, per poi metterla o metterlo vista la straordinaria somiglianza, al centro di una piazza, in attesa che il malcapitato calciatore la colpisca con tutta quella forza , che naturale si sprigionava alla vista, assai rara in quei tempi, di un pallone da calcio in cuoio e cuciture. Non occorre che vi spieghi le sguaiate risate che accompagnavano gli autori di così riprovevole scherzo, ben nascosti in un anfratto o dietro un verde riparo, mentre il rumore delle ossa sovrastava il bronzeo batter del campanile. Ecco però che ciò che agli occhi appare un perspicuo insano gesto, diventa, nella sostanza pietrosa di quel pallone prima di esser calciato, una metafora della pesantezza delle macerie, ancor presenti in quella Trento del '49. Pallone che è nuovamente metafora, questa volta di leggerezza, che ha il colore bianco di un abito da sposa preso a prestito (i matrimoni che riprendono ad essere celebrati dopo anni di guerra) o le movenze ballerine dei “The danzanti” al Caffè degli specchi o della musica americana di una vecchia radio, nel momento che il rumore delle ossa rotte, dopo lo sventurato calcio, si quieta lassù dove la palla diventa cinepresa di quel desiderio di cambiamento in una Italia povera ed arretrata in cui la presenza della fame è ben visibile nella magrezza dei suoi figli.
Nell'accostarmi a questo mio nuovo lavoro fondamentali sono state le storie di personaggi e luoghi di quella Trento del '49, raccontate abilmente da Gian Pacher, al quale è dedicato il poemetto, da me consumate come un divoratore di vaghezza e memoranda conoscenza. Storie e pezzi di cronaca tratti da giornali dell'epoca, cesellate nei versi di “Ester al caffè”, od il bianconero realismo delle foto che accompagnano come silenti ciceroni i versi del poemetto. Versi “trovati” in quel pozzo emozionale di interviste a me rilasciate da chi quei fatti, luoghi e personaggi li ha visti con gli occhi colorati del fanciullo.
I personaggi che accompagnano il lettore in “La pietra di San Martino” fanno parte di una comune famiglia di Trento di quel periodo, dolorosamente segnata dal passaggio ferrigno della guerra, (la morte della mamma di Alda e Mario, moglie di Leopoldo, durante il bombardamento di Trento il 2 settembre del 1943 da parte degli anglo-americani), e dalle vicende famigliari conseguenti ad un amore, quello di Alda per un fascista, impossibile da accettare per un cuore socialista, come quello di Leopoldo. In questo quadro famigliare, morsicato dall'orgoglio e dalla fame, la figura di Mario, il fratello di Alda, rappresenta l'io poetante, in quel vedere le cose ponendosi in un'angolazione diversa, sopra il tutto; ecco allora che i morti per Mario sono una presenza vivida, non solo la madre morta costeggia la sponda della sua immaginifica vita, (Mi hai guardato , blu oltremare chiaro,/come si guarda un figlio redire dal mare,/bionda treccia spezzata dall'ignaro/badile, tra il recere rantoloso/di carne di sopra schegge di carne. - Il sogno di Mario), ma tutti i morti del bombardamento del quartiere nativo, “La Portela”, lo vengono a trovare nelle sue notti (Ecco di voi, morti delle mie notti,/involo il frutto degli orti dai carri/passanti fra noi smargeloti/della Portela, la dolce mela che/ …. - Il sogno di Mario); la loro presenza come accennato in precedenza non assume una veste inquietante, anzi diventa luminescente (Gracile s'aderge il corpo di Mario/agli eleganti stucchi vittoriani,/che par volare lassù,/con gli occhi suoi igniti,/ad affocar le ottenebranti orbite:/ così or stanno accesi/i morti a cavalcioni, disopra le mirabili lumiere. - 31 dicembre 1949). In un periodo come quello attuale, dove la morte viene nascosta nelle asettiche camere mortuarie di un ospedale, profanata nei servizi di cronaca o nei morbosi talk show televisivi, la sua paradossale vivida presenza nel poemetto, ridà la giusta caratteristica all'umano essere di questo mondo.
L'ultimo personaggio famigliare è Ester, la zia di Alda e Mario, sorella della scomparsa Nives, cognata di Leopoldo; Ester vive perennemente nel ricordo di un amore “nascosto” (l'uomo era sposato con un'altra donna), venuto a mancare per una malattia (Bianco il meleto di Ester bambina/è un aleggio che quieta il luttuoso ricordo:/amata penombra invano contesa/al rosso dolente di quell'orina./... - Ester), ed è “risvegliata” dalla presenza inattesa di Leopoldo e Mario, dopo che il bombardamento della Portela ha cancellato completamente ogni traccia dell'abituro di sua sorella Nives. Alda, a quel tempo già in rotta con il padre, vive da sola avvolta dalla sua eleganza e dal disprezzo per il genere maschile che usa a suo piacimento. Ma ritornando ad Ester, il prendersi cura di Leopoldo e Mario, di per sé stravolgente del suo vivere solitario in un mondo colorato solamente delle sue crete, diventa elemento salvifico al suo essere donna nel ruolo sognato di madre.
Leopoldo è un cuore socialista come accennato in precedenza, dapprima lavoratore straniero nelle ferrovie belghe, da dove ha avuto modo di conoscere l'ancor più triste condizione lavorativa dei minatori (...ancor sento troppo vicino il rugghiare/disotto misere carni annerite,/che la nostra fatica,/qui lungo la strada ferrata,/poca cosa par al cielo che guarda,/se ad altra inumana fatica/il ciel è un'atra collana di spine. - Leopoldo e il fiordaliso), successivamente, rientrato a Trento, operaio presso la Ferriera dove lavora a pochi metri dall'altoforno (...s'alza il ferro che fonde,/il suo sole esecrato,/il formicolio della pelle,/la sua tenerezza,/quei suoi peli bruciati;/ - La baracca “rossa”); Leopoldo vive con un rovello che lo sta consumando giorno per giorno, da quando è venuto a conoscenza che sua figlia, da lui ripudiata per la relazione con un fascista, si è prostituita per salvarlo dalla deportazione nel campo di Mauthausen-Gusen, dopo che il suo comportamento parolaio camminò sulle lingue sicofanti fino a giungere a chi tale comportamento poco tollerava in quella Trento fascista. Leopoldo a Trento frequenta la baracca “rossa”, luogo di ritrovo di comunisti e socialisti, dove stringe amicizia con Achille, operaio della SLOI, fabbrica di Trento che produceva il piombo tetraetile, comunemente chiamato Pt, un liquido viscoso incolore, ottenuto dalla reazione del cloruro di etile con una lega di piombo-sodio, usato come antidetonante necessario al buon funzionamento dei motori aeronautici. Dopo la guerra, nel 1947 lo stabilimento di Trento (uno dei più grandi d'Europa) riprende le lavorazioni; la paga è buona e gli altissimi rischi di tossicità vengono sottaciuti. Achille come tanti in quel periodo e successivamente negl'anni si ammala, e come altri gli viene fatta la classica erronea diagnosi di psicosi o alcolismo, viene internato all'ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana; non ne uscirà più (Achille fissa/il bianco imbottito della parete;/nel rombo che le scuote,/smarrite, le pareti del cervello/raschiano una voce un tempo possente... / - Achille). Nella lirica “La baracca rossa”, sede di riunione dei socialisti e comunisti sorta nell'immediato dopoguerra, lo sdegno e la solidarietà operaia, oggi quanto mai in disuso, si pesa nell'elenco dei nomi dei compagni (...Febbrile una voce possente,/conficca nell'aria rovente/ nomi di facce amiche,/carni morte ammazzate,/fatiche frante da troppa fatica/e dalle mani macchiate di rosso/degli aulenti fazzoletti di seta.), lavoratori ammalazzati o periti nelle “cattedrali del lavoro”, così le chiama Vittorio Cristelli; in quel passaggio dall'era contadina all'era industriale (...lucidi nel lattescente mattino,/vomitano i grandi camini/l'ego di una nuova società.) le fabbriche diventano protagoniste nel bene e nel male; le aspettazioni di sviluppo e di spensieratezza, quanto mai anelate nel periodo buio della guerra, si concretizzano nel lavoro come fonte di sussistenza e di sogni fino a pochi anni prima inimmaginabili. Ma tutto ciò in molte occasioni ha un prezzo troppo alto da pagare, la mancanza totale di norme per la sicurezza, orari duri, vite minate da arie venefiche, sono causa delle cosiddette morti “bianche” , dove il bianco sta ad indicare l'assenza di una mano direttamente responsabile. Sono passati sessanta lunghi anni da quel periodo storico, ma i nomi si aggiungono alla ferale lista delle morti “bianche”, sempre più bianche: l'Italia nel decennio 1996-2005, è risultato il paese con il più alto numero di morti sul lavoro in Europa.
In “La pietra di San Martino” non solamente il lavoro in fabbrica viene consegnato al lettore, ma anche il fenomeno dell'emigrazione stagionale (Tutte in ordine, poche cose:/un reggipetto di cotone/(confezionato in casa),/asciugamani, un cambio di biancheria;/le valigie son di fresco cartone,/la miseria, per una volta,/sta tutta in alto ben schierata. - Le stagionali parte seconda); sono molti gli uomini e le donne trentine e non, che sono costretti a cercare in un paese straniero, una possibilità di occupazione; la Svizzera è uno di questi paesi, dove molte giovani donne trentine provenienti dalle valli e dalla città si recano con già in tasca un contratto: (...Come la primiera tuffata al fiume,/la chiacchiera s'aggiunge/alla voce del treno e del suo legno,/c'è chi in silenzio tiene in mano la Svizzera:/un contratto semestrale in tedesco).
In conclusione “La pietra di San Martino” è un percorso rivolto alla rimembranza, non fine a sé stessa, ma come specchio utile a ritrovarsi disseppellendo un desiderio di speranza, oggi quanto mai tumulato sotto le macerie interne di ideali rugginosi, di pensiero copia ed incolla, di pensiero dualistico, delle nostre paure, sempre più ombre senza carne, che nascondiamo come nascondiamo l'unica verità che ci è dato di conoscere, la nostra mortale esistenza.


Walter Vettori

giovedì 3 dicembre 2009

78 Giri



78 Giri. Questo mio testo nasce da un’idea venutami nel leggere il libro-intervista di Ulderico Munzi. Egli, come inviato del Corriere, nel raccogliere l’appassionante testimonianza delle ausiliarie della Repubblica Sociale, delinea il groviglio di speranze, illusioni e passioni che animarono le scelte di queste giovanissime donne, “dimenticate” dalla storia ufficiale. Da qui il desiderio di scriver dei versi, che potessero rappresentare, più che il loro lato patriottico e storico, essere prima di tutto donna con propri sogni, desideri, e con la consapevolezza che la giovane età si scontrava con la pazzia di una guerra civile.
Quando è giunto il momento di tradurre tutto ciò sulla carta, l’originaria idea si è completamente svestita, indossando degli abiti diversi, cosicché i personaggi principali del libro sono diventati tre, ognuno con un ruolo che è, in alcuni casi di scelta, in altri di necessità; hanno tutti però un comune denominatore: il desiderio mai mancato di sognare.
Il titolo “78 Giri”, che corrisponde al supporto musicale per il grammofono, mi è sembrato appropriato, per dare una collocazione temporale al testo, in una sorta di invito ad un ripensamento spazio-tempo che è proprio di questi dischi (3 minuti per lato) dove è quasi immediato l’alzarsi per cambiare lato, e a sostituire la puntina dopo due-quattro ascolti, per evitare che deteriorandosi finisca per rovinare i solchi del disco.
Sono nati, quindi, tre soggetti femminili, tre nomi (Eleonora - Elettra - Agnese) accompagnati nel loro percorso esistenziale da due elementi maschili ben delineabili: il poeta che si ritrova in veri e propri sguardi, a volte filosofici, del presente, ed il pescatore, primo personaggio del libro, che assume un compito quasi carontiano tra l’oggi ed il passato (il 1944 anno della Repubblica Sociale di Salò). Eleonora, un’attrice di origine piemontese, ormai non più giovane, vede la sua vita sconvolta dall’avvento del regime fascista e dalla successiva guerra mondiale, che la porterà ad abbandonare i suoi sogni, che aveva fin da bambina, costringendola ad allontanarsi da Roma e a diventare la “compagna”, a turno, di gerarchi fascisti, fino al suo declino finale, in una Salò dal sapore pasoliniano. Qui, la troviamo stretta in un voluttuoso tango, ad una donna misteriosa, (la padrona di casa) che, nell’anticamera dell’obliquità, mostra un’immagine voyeuristica e narcisistica alla cinepresa in versi del poeta.
Elettra è una volontaria ventenne dell’aviazione della RSI in distanza al castello di Brescia con il compito di segnalare alla contraerea nazista gli aerei bombardieri anglo-americani; questa donna, proveniente da un paesino del Lazio, si ritrova catapultata, per una scelta coraggiosa ed incosciente allo stesso tempo, in un mondo così distante dalla sua Bracciano versiera e sognante, che solo il tenersi aggrappata ai ricordi famigliari e alla sua infanzia, le permette di mantenere un po’ di quella leggerezza, che è lo “status vivendi” di una ragazza della sua età. In questo malinconico vivere tra nostalgia e prava realtà, incontra, per la prima volta, l’amore che, nell’occasione, indossa la divisa di un caporale tedesco. Tutto, però, agli occhi degli amanti, assume un sapore ed un colore diverso, tanto da vivere, angosciosamente, la consapevolezza della tragicità della guerra, che si erge come un vero e proprio filo spinatoa contrastare la felicità del loro amore.
Agnese, è un’operaia di una fabbrica tessile del bresciano, ed è aggrappata al suo amore di madre, un figlio di cui non ha più notizie da mesi, unitosi sulle montagne ai “ribelli” (così i fascisti ed i tedeschi chiamavano i partigiani), che è forse l’unica luce che illumina una vita tragicamente segnata dal fuoco nemico di un plotone di esecuzione, quando, ad un muro della città di Brescia, rimase appesa la carne bruciata del padre di suo figlio. Questo dolore, si mescola ad altro dolore, ad altra sofferenza, diventando, per assurdo, quasi una stordente abitudine. La parvenza di vita donatale dal lavoro in fabbrica diventa l’elemento centrale del suo quotidiano, tale da essere fonte di un’alterezza che, a sua volta, diviene discriminazione verso una giovane operaia sedicenne, annebbiata dal fumo acre del cannone e dalla scelta “sbagliata e disillusa” di un amore partito, verso quel fumo, con la divisa della RSI. Donna, Agnese, che, insieme a tante altre sue compagne e compagni, si inserisce in quella fitta rete organizzata all’interno e al di fuori della fabbrica, di aiuto e sostegno ai partigiani, che aveva come scopo quello di sottrarre le matasse di lana, che venivano poi portate a casa, lavorate dalle donne più anziane, e successivamente mandate, in forma di capo confezionato, ai partigiani.
E’ il personaggio conclusivo del libro, un emblema di tutte quelle donne “dimenticate” dalla storia ufficiale che giorno dopo giorno, hanno continuato a vivere, a lottare, lavorando più del sopportabile, per dare sostentamento ai figli, agli anziani, a chi che rimaneva, perché la vita doveva continuare, nonostante la guerra.
Il libro si conclude, prima dell’ultimo “sguardo” del poeta, con una seconda parte dedicata al pescatore di Salò, quasi un guazzo dal sapore pavesiano, tanto da diventare un vero e proprio atto di riguardo a Pavese, figura precettiva nell’immaginifico del poeta.
L’atto conclusivo è l’angoscioso pensiero del poeta difronte ad una vita, “non vita” dopo l’accanimento della pazzia deontologica (seguo, ansante,/il girare smarrito dei tuoi occhi/) che diventa una vera e propria riflessione filosofica, dove dalla considerazione leopardiana ( Zibaldone di pensieri) che la conoscenza della nullità delle cose conduce alla pazzia (e guardo alla pazzia deontologica/come un ragno che cuce un riposo di sogni/), il poeta si fa essere piccolo. Inoltre, acquistando il necessario distacco che porta alla “responsabilità” jonasiana, dove Dio rinuncia all’onnipotenza a favore dell’agire libero e responsabile dell’uomo (e l’omni, qui, può trovare riposo/all’ombrato della bianca fresia). Dai simbolismi (la fresia indica il fiore del mistero, dell’arcano) si arriva all’elemento centrale di tutto il romanzo, il lago, che qui, “nell’ultimo sguardo”, assume un significato taletiano nel suo elemento, l’acqua, dalla quale provengono e nella quale le cose ritornano e per il poeta è il nepente necessario a mantenere il cammino nel proprio immaginario (sono silenzio, /nell’archè dei miei occhi,/affonda dolce,/la pendola sul lago,/il bianco remo:/è tempo della nota di riposo/).
Gli ultimi attimi nel libro, sono dedicati ai versi di una canzone del cantautore genovese Ivano Fossati, dal titolo Invisibile, e che nelle suo insieme di parole e musica, rappresenta la consapevolezza che è nell’invisibilità delle piccole cose che l’uomo scopre la propria totale visibilità.
L’autore

Aneliti di sole



La silloge poetica dal titolo "Il pianoforte" è compresa nell'antologia poetica del Gruppo poeti di Trento "Elianto 2001". Quest'ultimo, presideduto da Walter Vettori, nasce nel maggio 2001 ed ha tra i punti fondamentali del proprio statuto quello dello studio e della ricerca a livello emozionale e di percezione personale di ogni forma di espressione artistica. È convinzione comune degli elementi del gruppo che non bastano le buone sensazioni ed i buoni propositi per comporre versi, ma che solo un ritorno alle fonti genuine e ad uno studio costante e severo possa dare a ciò che si scrive la giusta dignità poetica.Tutto questo non è una dichiarazione d'amore al verso regolare, ma la consapevolezza dell'importanza che riveste il suo studio; sono molti i punti in comune che il gruppo ha con il "Manifesto - Programma" del Movimento Giovani Poeti d'Azione, tra i quali il voler recuperare il terreno perduto dalla poesia nei confronti della musica e della narrativa pretendendo, da parte del mondo editoriale e dai media, un trattamento paritario con la poesia, spesso, quest'ultima, rilegata ad un ruolo di "Cenerentola".Non deve esserci amore per il sapere in quanto tale, ma come mezzo per l'accrescimento della propria arte: scolarità ed accademia, spesso, fanno un funerale della poesia allontanando definitivamente i giovani dalla "Regina" dell'arte. È intendimento del Gruppo, in perfetta simbiosi con il Movimento Giovani Poeti d'Azione, che la scrittura poetica chiusa nel suo specifico, aristocratica, iniziatica, incomunicabile, si condanna al silenzio, all'autoesclusione; ecco allora che farla uscire dai soliti salotti letterari per accompagnarla in un leggero volo fra la gente comune, nelle piazze, nei giardini, con la sua capacità di sintesi concettuale, può provocare un'onda benefica nel placido lago della Società dei consumi, dove spesso ci si addome in un veleggiare svuotato di ogni senso.