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giovedì 6 maggio 2010

LA PIETRA DI SAN MARTINO



Il titolo “La pietra di San Martino”, che è anche il titolo di una lirica del libro divisa in tre parti, nasce da un racconto fattomi riguardante uno scherzo, in voga nei primi anni cinquanta del novecento, che constatava nel prendere una pietra della giusta grandezza levigarla, dipingerla curandone i particolari fino a farla somigliare nel risultato finale ad un vero e proprio pallone da calcio, per poi metterla o metterlo vista la straordinaria somiglianza, al centro di una piazza, in attesa che il malcapitato calciatore la colpisca con tutta quella forza , che naturale si sprigionava alla vista, assai rara in quei tempi, di un pallone da calcio in cuoio e cuciture. Non occorre che vi spieghi le sguaiate risate che accompagnavano gli autori di così riprovevole scherzo, ben nascosti in un anfratto o dietro un verde riparo, mentre il rumore delle ossa sovrastava il bronzeo batter del campanile. Ecco però che ciò che agli occhi appare un perspicuo insano gesto, diventa, nella sostanza pietrosa di quel pallone prima di esser calciato, una metafora della pesantezza delle macerie, ancor presenti in quella Trento del '49. Pallone che è nuovamente metafora, questa volta di leggerezza, che ha il colore bianco di un abito da sposa preso a prestito (i matrimoni che riprendono ad essere celebrati dopo anni di guerra) o le movenze ballerine dei “The danzanti” al Caffè degli specchi o della musica americana di una vecchia radio, nel momento che il rumore delle ossa rotte, dopo lo sventurato calcio, si quieta lassù dove la palla diventa cinepresa di quel desiderio di cambiamento in una Italia povera ed arretrata in cui la presenza della fame è ben visibile nella magrezza dei suoi figli.
Nell'accostarmi a questo mio nuovo lavoro fondamentali sono state le storie di personaggi e luoghi di quella Trento del '49, raccontate abilmente da Gian Pacher, al quale è dedicato il poemetto, da me consumate come un divoratore di vaghezza e memoranda conoscenza. Storie e pezzi di cronaca tratti da giornali dell'epoca, cesellate nei versi di “Ester al caffè”, od il bianconero realismo delle foto che accompagnano come silenti ciceroni i versi del poemetto. Versi “trovati” in quel pozzo emozionale di interviste a me rilasciate da chi quei fatti, luoghi e personaggi li ha visti con gli occhi colorati del fanciullo.
I personaggi che accompagnano il lettore in “La pietra di San Martino” fanno parte di una comune famiglia di Trento di quel periodo, dolorosamente segnata dal passaggio ferrigno della guerra, (la morte della mamma di Alda e Mario, moglie di Leopoldo, durante il bombardamento di Trento il 2 settembre del 1943 da parte degli anglo-americani), e dalle vicende famigliari conseguenti ad un amore, quello di Alda per un fascista, impossibile da accettare per un cuore socialista, come quello di Leopoldo. In questo quadro famigliare, morsicato dall'orgoglio e dalla fame, la figura di Mario, il fratello di Alda, rappresenta l'io poetante, in quel vedere le cose ponendosi in un'angolazione diversa, sopra il tutto; ecco allora che i morti per Mario sono una presenza vivida, non solo la madre morta costeggia la sponda della sua immaginifica vita, (Mi hai guardato , blu oltremare chiaro,/come si guarda un figlio redire dal mare,/bionda treccia spezzata dall'ignaro/badile, tra il recere rantoloso/di carne di sopra schegge di carne. - Il sogno di Mario), ma tutti i morti del bombardamento del quartiere nativo, “La Portela”, lo vengono a trovare nelle sue notti (Ecco di voi, morti delle mie notti,/involo il frutto degli orti dai carri/passanti fra noi smargeloti/della Portela, la dolce mela che/ …. - Il sogno di Mario); la loro presenza come accennato in precedenza non assume una veste inquietante, anzi diventa luminescente (Gracile s'aderge il corpo di Mario/agli eleganti stucchi vittoriani,/che par volare lassù,/con gli occhi suoi igniti,/ad affocar le ottenebranti orbite:/ così or stanno accesi/i morti a cavalcioni, disopra le mirabili lumiere. - 31 dicembre 1949). In un periodo come quello attuale, dove la morte viene nascosta nelle asettiche camere mortuarie di un ospedale, profanata nei servizi di cronaca o nei morbosi talk show televisivi, la sua paradossale vivida presenza nel poemetto, ridà la giusta caratteristica all'umano essere di questo mondo.
L'ultimo personaggio famigliare è Ester, la zia di Alda e Mario, sorella della scomparsa Nives, cognata di Leopoldo; Ester vive perennemente nel ricordo di un amore “nascosto” (l'uomo era sposato con un'altra donna), venuto a mancare per una malattia (Bianco il meleto di Ester bambina/è un aleggio che quieta il luttuoso ricordo:/amata penombra invano contesa/al rosso dolente di quell'orina./... - Ester), ed è “risvegliata” dalla presenza inattesa di Leopoldo e Mario, dopo che il bombardamento della Portela ha cancellato completamente ogni traccia dell'abituro di sua sorella Nives. Alda, a quel tempo già in rotta con il padre, vive da sola avvolta dalla sua eleganza e dal disprezzo per il genere maschile che usa a suo piacimento. Ma ritornando ad Ester, il prendersi cura di Leopoldo e Mario, di per sé stravolgente del suo vivere solitario in un mondo colorato solamente delle sue crete, diventa elemento salvifico al suo essere donna nel ruolo sognato di madre.
Leopoldo è un cuore socialista come accennato in precedenza, dapprima lavoratore straniero nelle ferrovie belghe, da dove ha avuto modo di conoscere l'ancor più triste condizione lavorativa dei minatori (...ancor sento troppo vicino il rugghiare/disotto misere carni annerite,/che la nostra fatica,/qui lungo la strada ferrata,/poca cosa par al cielo che guarda,/se ad altra inumana fatica/il ciel è un'atra collana di spine. - Leopoldo e il fiordaliso), successivamente, rientrato a Trento, operaio presso la Ferriera dove lavora a pochi metri dall'altoforno (...s'alza il ferro che fonde,/il suo sole esecrato,/il formicolio della pelle,/la sua tenerezza,/quei suoi peli bruciati;/ - La baracca “rossa”); Leopoldo vive con un rovello che lo sta consumando giorno per giorno, da quando è venuto a conoscenza che sua figlia, da lui ripudiata per la relazione con un fascista, si è prostituita per salvarlo dalla deportazione nel campo di Mauthausen-Gusen, dopo che il suo comportamento parolaio camminò sulle lingue sicofanti fino a giungere a chi tale comportamento poco tollerava in quella Trento fascista. Leopoldo a Trento frequenta la baracca “rossa”, luogo di ritrovo di comunisti e socialisti, dove stringe amicizia con Achille, operaio della SLOI, fabbrica di Trento che produceva il piombo tetraetile, comunemente chiamato Pt, un liquido viscoso incolore, ottenuto dalla reazione del cloruro di etile con una lega di piombo-sodio, usato come antidetonante necessario al buon funzionamento dei motori aeronautici. Dopo la guerra, nel 1947 lo stabilimento di Trento (uno dei più grandi d'Europa) riprende le lavorazioni; la paga è buona e gli altissimi rischi di tossicità vengono sottaciuti. Achille come tanti in quel periodo e successivamente negl'anni si ammala, e come altri gli viene fatta la classica erronea diagnosi di psicosi o alcolismo, viene internato all'ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana; non ne uscirà più (Achille fissa/il bianco imbottito della parete;/nel rombo che le scuote,/smarrite, le pareti del cervello/raschiano una voce un tempo possente... / - Achille). Nella lirica “La baracca rossa”, sede di riunione dei socialisti e comunisti sorta nell'immediato dopoguerra, lo sdegno e la solidarietà operaia, oggi quanto mai in disuso, si pesa nell'elenco dei nomi dei compagni (...Febbrile una voce possente,/conficca nell'aria rovente/ nomi di facce amiche,/carni morte ammazzate,/fatiche frante da troppa fatica/e dalle mani macchiate di rosso/degli aulenti fazzoletti di seta.), lavoratori ammalazzati o periti nelle “cattedrali del lavoro”, così le chiama Vittorio Cristelli; in quel passaggio dall'era contadina all'era industriale (...lucidi nel lattescente mattino,/vomitano i grandi camini/l'ego di una nuova società.) le fabbriche diventano protagoniste nel bene e nel male; le aspettazioni di sviluppo e di spensieratezza, quanto mai anelate nel periodo buio della guerra, si concretizzano nel lavoro come fonte di sussistenza e di sogni fino a pochi anni prima inimmaginabili. Ma tutto ciò in molte occasioni ha un prezzo troppo alto da pagare, la mancanza totale di norme per la sicurezza, orari duri, vite minate da arie venefiche, sono causa delle cosiddette morti “bianche” , dove il bianco sta ad indicare l'assenza di una mano direttamente responsabile. Sono passati sessanta lunghi anni da quel periodo storico, ma i nomi si aggiungono alla ferale lista delle morti “bianche”, sempre più bianche: l'Italia nel decennio 1996-2005, è risultato il paese con il più alto numero di morti sul lavoro in Europa.
In “La pietra di San Martino” non solamente il lavoro in fabbrica viene consegnato al lettore, ma anche il fenomeno dell'emigrazione stagionale (Tutte in ordine, poche cose:/un reggipetto di cotone/(confezionato in casa),/asciugamani, un cambio di biancheria;/le valigie son di fresco cartone,/la miseria, per una volta,/sta tutta in alto ben schierata. - Le stagionali parte seconda); sono molti gli uomini e le donne trentine e non, che sono costretti a cercare in un paese straniero, una possibilità di occupazione; la Svizzera è uno di questi paesi, dove molte giovani donne trentine provenienti dalle valli e dalla città si recano con già in tasca un contratto: (...Come la primiera tuffata al fiume,/la chiacchiera s'aggiunge/alla voce del treno e del suo legno,/c'è chi in silenzio tiene in mano la Svizzera:/un contratto semestrale in tedesco).
In conclusione “La pietra di San Martino” è un percorso rivolto alla rimembranza, non fine a sé stessa, ma come specchio utile a ritrovarsi disseppellendo un desiderio di speranza, oggi quanto mai tumulato sotto le macerie interne di ideali rugginosi, di pensiero copia ed incolla, di pensiero dualistico, delle nostre paure, sempre più ombre senza carne, che nascondiamo come nascondiamo l'unica verità che ci è dato di conoscere, la nostra mortale esistenza.


Walter Vettori